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Tra Provenza e Pirenei

by: Nadia Silistrini
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Provenza e Pirenei

Tra Provenza e Pirenei

7 luglio 2012

Quando diciamo che quest’anno la meta delle nostre vacanze è la Linguadoca, la maggior parte dei conoscenti ci guarda stranita. “Dove sarebbe questo posto?”, ci chiede, mentre alcuni, facendo confusione tra il significato di “oc” (sì, nell’antica lingua del Mezzogiorno francese) e “oca” pensano che andiamo in qualche posto famoso per il foie gras.
Non c’è da meravigliarsi, dato che pochi conoscono questa regione collocata tra la Provenza e i Pirenei, obiettivo nella prima metà del XIII secolo della crociata contro gli Albigesi (o Catari, come si dice talvolta, ma gli eretici non usarono mai questo nome per se stessi definendosi piuttosto Boni Homini o Boni Christiani). Le nostre mete sono le “Cittadelle delle vertigini”, una serie di castelli costruiti dai feudatari occitani sulla sommità di rilievi dalle pareti a picco, apparentemente imprendibili e invece conquistati in nome del re di Francia, rasi al suolo, riedificati, abbandonati, e infine restaurati.
Partiamo percorrendo la Milano-Torino-Susa in direzione del colle del Monginevro.
Il viaggio in autostrada inizia con un quadro piuttosto tenero: sui sedili posteriori della macchina che ci precede al casello, fanno bella mostra di sé una bambino piccolo nel suo seggiolino e un cane sambernardo che lo guarda protettivo dall’alto della sua mole.
Le nubi tanto bianche e dense all’orizzonte da sembrare montagne e le case coloniche perse nella vastità della pianura, e una volta lasciata l’autostrada, due girasoli che si affacciano a guardare il traffico da un balcone della periferia torinese, ci danno la misura di come basti poco per catturare la bellezza. Conoscendo già piuttosto bene la Val Susa non facciamo soste ma non possiamo esimerci dal rallentare passando sotto la Sacra di San Michele. Girando lo sguardo ovunque in ogni piccolo paese, ci auguriamo un serio ripensamento per ciò che riguarda l’alta velocità. Sul confine, ci colpiscono le scritte in una panetteria, che mischiano parole italiane e francesi e ne inventano una tanto meticcia quanto dolce: croissanteria.
A Briançon ci sistemiamo all’albergo Mont Brison. La camera si affaccia su un retro deprimente per le costruzioni vicine ma interessante per la vista sui numerosi forti che punteggiano le montagne. Ceniamo e raggiungiamo il centro in un quarto d’ora circa di strada in salita. L’aria è frizzante, d’altra parte, come città, Briançon è seconda in altezza solo alla svizzera Davos. Entriamo dalla Porte de Pignerol e ci troviamo immersi nelle Médiévale, festa in costume che celebra l’epoca in cui Briançon era capitale degli Escarton, una regione che si estendeva di qua e di là delle Alpi, per cui non esisteva una parte italiana e una parte francese, ma un territorio unico, diviso in diversi cantoni, dove si dice, ma non si sa con quanto fondamento, che il livello di istruzione degli abitanti fosse altissimo. Sotto bandiere e stemmi, tra bancarelle e manufatti che ricreano giochi e passatempi dell’epoca e lungo le stradine ripide, si aggirano personaggi in costume, compreso un re o perlomeno un grande feudatario, preceduto e seguito da alcuni scudieri. Al centro della Piazzetta del Pozzo, un lenzuolo bianco posizionato sulla copertura a forma di pepaiola, reca scritta la leggenda della principessa respinta dal cavaliere amato, che riempì con le sue lacrime l’intero pozzo.
Nell’arena, un complesso esegue musiche medievali e una ragazza spiega come danzare. Gli uomini e le donne sono schierati frontalmente e le file si muovono l’una verso l’altra, per superarsi, indietreggiare ed incontrarsi di nuovo. Provo anch’io queste danze che non conosco e m’impapero ma per fortuna il mio improvvisato cavaliere avrà circa dieci anni ed è al mio stesso livello. Fabrizio se la ride e applaude dagli spalti. Abbiamo così un assaggio di Medioevo ben prima di arrivare alla meta, senza contare che il provenzale alpino parlato in questa regione è considerato una variante della Langue d’Oc.
Briançon è una cittadina fortificata le cui mura, ora patrimonio dell’Unesco, sono state concepite da Vauban, ingegnere militare del Re Sole, in modo da non lasciare scoperta alcuna parte. L’andirivieni di angoli consentiva di colpire il nemico senza scampo. Ora le fortificazioni servono per passeggiare e parlare di questa regione di confine. Ci torna in mente la croissanteria vista al Monginevro. Le montagne sono un vero e proprio microcosmo che mostra quanto l’idea di frontiera e di nazionalità sia relativa e si trasformi in un dramma solo quando gli stati si scontrano da nemici, com’è accaduto qui durante la seconda guerra mondiale.

8 luglio
Francia-Nizza_1CsaleLasciamo Briançon per raggiungere il Parco Nazionale delle Cevenne, una catena montuosa che fa parte del Massiccio Centrale e che l’UNESCO ha inserito nel patrimonio dell’umanità. In letteratura, sono state rese celebri da Robert Louis Stevenson, che scrisse nel 1879 “In viaggio con un asino nelle Cévennes”, che per la cronaca era un’asina chiamata Modestine.
Non è la strada più rapida per giungere alla meta, ma ci piace l’idea di conoscere quella zona. Prima però, poiché è domenica, vorremmo trovare una chiesa per la Messa. Sappiamo già da viaggi precedenti che in Francia le Messe non sono frequenti come le nostre e quindi potremmo non trovare nulla. Guardiamo sulla cartina e vediamo che non molto lontano sorge l’abbazia di Boscodon. Il luogo è situato in una serena cornice di boschi e di montagne, ma una lapide rammenta che in una delle case avevano la loro base dieci esponenti della Resistenza, arrestati e fucilati dalla Gestapo.
I monaci appartengono a varie congregazioni e si dimostrano subito accoglienti. Vedendo il grande afflusso di persone srotolano un largo tappeto davanti all’altare, in modo che i bambini possano giocare tranquillamente con bambole e macchinine durante la celebrazione.
I canti sotto le volte austere di questa chiesa del XII secolo sono affascinanti. Lungo le pareti scendono lunghi teli, opera di artisti moderni, i cui chiaroscuri sono essenziali quanto gli interni romanici. E’ una chiesa che con le sue geometrie ricche di simbolismi comunica bellezza e sensibilità. A lato, vi è la Cappella dell’Abate, costruita nello stesso stile due secoli dopo e rimasta immune dalle nuove tendenze del gotico fiammeggiante.
Terminata la Messa, visitiamo il chiostro, che rivela tutti gli insulti subiti dall’abbazia a causa delle guerre di religione e della Rivoluzione francese, che aveva trasformato il complesso abbaziale in un seguito di abitazioni e stalle. Ora sono in corso restauri, ma ciò che resta è già utilizzato per scopi culturali. Fa piacere che una delle strutture restaurate sia l’armadio in cui i monaci riponevano i loro libri, ricavato in un angolo del chiostro.
Lasciata Boscodon, scendiamo lungo la valle della Durance, che sembra non finire mai. Lasciato il fiume, che ci porterebbe a Gap e in Provenza, attraversiamo le colline facendo sosta prima di sera presso “Le vieux mulin”, in un paesino di settecento anime chiamato Le Collet de Dèze. La cena che ci viene servita è ottima, e viene smaltita con una passeggiata serale, anche se breve perché basta poco per trovarsi nel bosco.

9 luglio
Linguadoca_02PanoramaDopo una notte tranquilla, ci aspetta una colazione buona quanto la cena. Ripartiamo e facciamo la prima sosta nel villaggio di Florac, che fa parte dei borghi più belli di Francia. Parcheggiamo l’auto poco lontano dal tempio della chiesa riformata di Francia. La regione delle Cevenne era popolata da una nutrita comunità ugonotta. Durante le guerre di religione, gli ugonotti di Florac hanno distrutto la chiesa cattolica e dopo la revoca dell’editto di Nantes nel 1685, i cattolici hanno raso al suolo l’edificio protestante. Ci sono voluti alcuni secoli per riedificare le chiese attuali e mettere giudizio. Infatti, troviamo un avviso che informa che il 22 luglio ci sarà una preghiera di tutte le confessioni religiose in favore delle vittime della tortura.
Il paese è attraversato da un affluente del Gardon, le cui acque, limpidissime e piene di trote, sono state irreggimentate per contenere le piene in modo “esteticamente sostenibile”.
Saliamo fino al castello, che vediamo solo da fuori e che oggi è la sede dell’Ufficio informazioni del Parco Nazionale delle Cevenne, poi scendiamo fino alla chiesa cattolica e ad un palazzo con un bel portale che sarebbe stato costruito su una antica sede dei Templari.
E’ piacevole camminare lungo le viuzze strette e fiancheggiate da case d’epoca.Portone
Riusciamo a comprare verdure e formaggi ma non il pane, perché fuori dalla panetteria si snoda una coda lunghissima e rimediamo più avanti in un Carrefour. Poi ci inoltriamo nel Parco Nazionale imboccando la strada panoramica che segue i meandri calcarei delle gole del Tarn. Sono imperdibili, dei veri canyon scavati nel corso dei millenni dalle acque color smeraldo di questo fiume lungo e tortuoso, punteggiato da castelli e antichi agglomerati. Segnaliamo in particolare due posti che ci sono piaciuti: Castelbouc e Le Pas de Soucy. Il primo è un villaggio troglodita situato in riva al fiume. Si può ammirare anche restando in alto, sulla strada, tuttavia vale la pena scendere e visitarlo. Vi si accede percorrendo un ponte quasi a filo d’acqua, dove un cartello avverte che potrebbe essere sommerso in caso di piena. All’ingresso del paese è stato elevato un monumento ai caduti della Grande Guerra, effigiati con le loro fotografie antiche un po’ sbiadite. Non sono molti, ma fatte le debite proporzioni, deve essere stata una Linguadoca_03strage. Il villaggio, stretto tra le rocce e il fiume, è molto caratteristico, con le case in pietra piene di fiori, il forno del pane in bella vista e la cappella del 1382 dedicata a san Giovanni Battista.
Le Pas de Soucy è uno dei siti più pittoreschi delle gole e al prezzo di cinquanta centesimi a testa, si accede ad una terrazza da cui si contempla tutto il corso del Tarn. La leggenda narra che il demonio, inseguito da Sainte Enimie, fu travolto dalle rocce crollate su di lui a seguito delle preghiere della santa, ma per quanto ferito e malconcio, riuscì a mettersi in salvo attraverso una fenditura nel letto del Tarn e a riguadagnare così l’inferno.
La santa, appartenente alla stirpe reale dei Merovingi, ha dato il nome al piccolo paese, uno dei borghi più belli di Francia, dove sarebbe stata miracolosamente guarita dalla lebbra. Vorremmo visitarlo, ma è impossibile trovare parcheggio, per cui possiamo solo osservarlo da lontano.
Alla fine delle gole del Tarn, pensiamo di percorrere quelle della Jonte, che ci porterebbero per un tratto verso Florac, ma sbagliamo strada e ci troviamo nel parco forestale delle Causses Noires, lungo un tracciato dove si vedono solo e soltanto piante e che sembra non finire mai. Nonostante l’intoppo, appena lasciato questo altopiano, sbuchiamo in un punto panoramico da cui si gode tutta la vista su Millau e il Tarn.
FiumeSopra di noi, volano una quindicina di parapendii coloratissimi e un deltaplano, e la cosa incredibile è vedere due uccelli rapaci che volteggiano con loro disegnando grandi cerchi, come se si fossero accordati per una danza. Mi torna alla mente un racconto, “L’angelo della dodicesima legione”, in cui un giovane in seria difficoltà col suo parapendio, prega perché se Gesù poteva chiedere l’aiuto di dodici legioni di angeli, a lui fosse mandato almeno l’ultimo angelo della dodicesima legione, e all’improvviso appare un falco che col suo volo gli indica una corrente ascensionale favorevole.
Scendiamo a Millau, che possiede una parte antica ben conservata. Su una delle porte di accesso, leggiamo la storia di una causa intentata nel 1400 da un abitante che non ne poteva più del vicino Linguadoca_04conciatore di pelli, e della sentenza dei giudici che intimavano al conciatore di rimuovere tutte le pelli entro otto giorni.
Partiamo per Albi. La strada offre scorci suggestivi, snodandosi fra colline coltivate a cereali ed altre più boscose, dove, come in Italia, ogni piccolo paese ha qualcosa di caratteristico e meriterebbe una sosta, però se continuiamo a fermarci, alle Cittadelle delle Vertigini non arriveremo più.
Ad Albi, troviamo un parcheggio stranamente gratuito proprio sotto la cattedrale. Ci mettiamo in cerca di un tetto e seguendo alcune indicazioni arriviamo all’albergo Saint Clair. Chiediamo una stanza e la ragazza alla reception ci dice che ne è rimasta una sola, al terzo piano, e che prima di decidere è bene che la vediamo, dato che ha una sola finestra in bagno. Sulle prime penso di aver capito male, invece poi, dopo aver salito una serie di scale piuttosto ripide, costatiamo che la stanza è una mansarda microscopica dove ci sta solo il letto e si picchia la testa ovunque, e che la sola finestra, a raso del pavimento, è effettivamente in bagno, l’unico luogo dove si può stare in piedi senza dare duramente col cranio nel soffitto. E’ troppo tardi per cercare altro e accettiamo. Usciamo a cenare e troviamo un ristorante poco lontano, Le Tartine, dove Fabrizio ordina una campagnarde e io una crêpe alla cannella. Scendendo verso il Ponte Vecchio, che unisce le due sponde del Tarn, abbiamo una vista di Albi formato cartolina, davvero pregevole. Non stupisce che l’UNESCO abbia inserito la Cité episcopale nel patrimonio mondiale dei beni culturali.

10 luglio
Linguadoca_09LinguadocaI nostri timori di non riuscire a prendere sonno a causa del caldo si rivelano infondati. Pur essendo sotto il tetto, la temperatura è buona. La giornata inizia subito bene, con la colazione servita nel cortile… e che cortile! Per quanto piccolo, fiori dappertutto, tovaglie e stoviglie provenzali. Abbiamo aspettato apposta, dopo le nove, per poter mangiare lì, altrimenti si doveva stare all’interno. La colazione era sufficiente per quattro, ed era tutto molto buono.
Decidiamo quindi di visitare la Cattedrale e fare ancora due passi. L’interno in stile gotico non è meno imponente dell’esterno, con un coro in pietra, tutto dentellato, che credo non abbia eguali. Vediamo un organo enorme e leggiamo che è il più grande di Francia. Non a caso la cattedrale è dedicata a Santa Cecilia. Contiene anche il Giudizio Universale più grande al mondo, dove l’organo separa santi e dannati.
Del chiostro, che doveva essere bellissimo, è sopravvissuto solo il lato sud, il resto è andato perso durante l’epoca napoleonica.
C’è una comunicazione diretta con la strada, per cui non è necessario rientrare nella cattedrale.
Partiamo in direzione di Castres e ci fermiamo in un supermercato per comprare qualcosa per il picnic. Ci piace fare la spesa nei posti che visitiamo, vedere che cosa compra la gente, che differenza c’è con i nostri negozi. Abbiamo già scoperto lo yoghurt di pecora alla castagna, che è già entrato di diritto nel nostro menu. L’unico inconveniente dei supermercati francesi è l’odore insopportabile di pesce o di chissà cos’altro, che non fa onore alla reale bontà della merce. Lungo la strada infiliamo una di quelle gallerie di platani così facili da trovare in Provenza, che attenua la luce abbacinante del sole. Vedendo le indicazioni per Lautrec, paese medievale, chiedo a Fabrizio se possiamo fare una piccola deviazione, anche per comprare una baguette.
La strada è stupenda, il paesaggio è dolce e riposante. Un cartello informa che stiamo entrando nella “Patria dell’aglio rosa”.
Linguadoca_10A Lautrec saliamo a vedere un mulino circondato da un giardino botanico dove è descritta la lavorazione della pianta del pastello, le cui foglie rotte e lavorate a forma di piccole palle chiamate “cocagne”, una volta seccate danno un blu meraviglioso, che fece la fortuna della regione per ben 300 anni e diede origine al termine “Paese della cuccagna”.
Comprata la baguette, ripartiamo verso Mazamet e ci fermiamo a mangiare in un relais poco fuori dalla città. Il bello delle strade francesi è che s’incontrano frequentemente questi posti forniti di panche, tavoli e cestini per l’immondizia, mentre da noi non è così semplice e come dice Fabrizio si pensa di più al ristoro della macchina che non a quello dei viaggiatori. In questo relais, coperto da un bersò ancora un po’ immaturo ( per fortuna è nuvoloso e quindi il sole non disturba) c’è anche una fontanella d’acqua. Una piccola oasi, stretta però tra una strada trafficatissima ed un lavaggio macchine nascosto dietro una fitta siepe. Se si potesse abbassare l’audio, sarebbe perfetto.
Penetriamo poi nel cuore della Montagna Nera, dove il verde cupo dei boschi contrasta con il giallo splendente dei campi di girasole. Superato il crinale, si entra nel dipartimento dell’Aude, il cuore del Paese Cataro.
Raggiungiamo Saissac e andiamo subito a visitare il castello, nel cui bookshop troviamo molto materiale di approfondimento. Il castello, posto alla confluenza di due profonde vallate, era stato messo a ferro e fuoco durante la crociata contro gli Albigesi. I signori di Saissac erano fedeli ai signori di Carcassonne, i Trencavel, che notoriamente simpatizzavano per l’eresia catara. I resti attuali risalgono in parte alla fine del 1200 e l’inizio del 1300, e in parte all’epoca rinascimentale, grazie ad una ricca famiglia di mercanti che ne era divenuta proprietaria. Durante la Rivoluzione francese era già in disuso e fu utilizzato come cava di pietre, e come ciliegina sulla torta, fu danneggiato ulteriormente nel 1862 da un cercatore di tesori.
Nura storicheIn una delle sale restaurate, un filmato narra quanto accaduto all’epoca della crociata, e racconta di come le persone nascondessero i propri averi per sottarli alla cupidigia delle armate reali. Poco lontano, è stato trovato nel 1979 un tesoro in monete d’oro risalenti al 1250-70, che, depositato in una banca, è stato rubato (si vede che era destino), poi ritrovato e ora si trova nel deposito di una Cassa di Risparmio. In un’altra sala, è allestita una mostra molto divertente sui tesori nascosti, quelli nascosti dalle gazze, dai bambini, dagli anziani che ne dimenticano l’ubicazione, sui tesori rappresentati dalle informazioni (con un’annotazione su James Bond), dalle parole dei letterati e dalle meteoriti, perché pare che negli USA i cacciatori di meteoriti siano pagati profumatamente anche per pochi grammi di questi oggetti celesti. Infine, si parla del tesoro rappresentato dalle tasse, la cui origine risale forse ai primi tempi del neolitico, quando l’uomo ormai diventato sedentario, cominciò a pagare guerrieri professionisti perché difendessero i campi coltivati. Lasciato il castello, andiamo a prendere una stanza all’albergo “La Montagne Noire”. Mangiamo un’insalatona all’aperto, nonostante il freddo. Avrei preferito un potage bollente, ma non era nella lista, e quando l’oste, che è molto gentile, mi chiede se voglio un infuso di verbena, vorrei rispondergli “anche due”.
Terminata la cena, raggiungiamo un punto panoramico e torniamo in albergo esplorando le vie di questo paese antico, i cui lampioni diffondono un’intensa luce gialla. E’ provvisto di canaletti che fiancheggiano le case, al punto che l’ultimo gradino davanti alle porte è forato per lasciar passare l’acqua.
La nostra camera dà sulla Torre Ovest del castello e grazie al fatto che la zona è abbastanza riparata, è possibile osservare il cielo. Una meteora appare come un guizzo infuocato e scompare tra le innumerevoli stelle che scintillano nel vento.

11 luglio
Linguadoca_12ArcoLa mattina scendiamo a fare colazione in una sala arredata in stile anni Settanta.
Lungo una parete, fanno bella mostra di sé un biliardino e un vecchio juke box. Sembra il Bar Sport con la Luisona, con la differenza che la colazione non ha niente di stantio, è semplicemente superba. La proprietaria è una signora che si premura di riempirci i piatti tre volte e si siede a chiacchierare con noi. Ci comunica molte informazioni sul Paese Cataro, la cui bandiera con la croce gialla in campo rosso è appesa al bancone, ma parliamo anche di attualità. La crisi sta mordendo quasi come in Italia, i turisti fanno il picnic e rinunciano al ristorante e a Carcassonne gli albergatori sono arrivati al punto di fare ribassi del 40% pur di trattenere la clientela.
Prima di lasciare Saissac, scendiamo ancora al Castello perché sui dépliant che abbiamo preso ieri abbiamo letto della possibilità di fare un “Passeport des Sites” che costa 2 euro e che permette di ottenere sconti di uno o due euro sul biglietto di ingresso a castelli, abbazie o musei. Ieri, il ragazzo alla reception non ci aveva parlato di questa possibilità, forse pensava che non fossimo interessati. Nel passaporto ci sono tutte le “Cittadelle delle vertigini”, eccezion fatta per Montségur, ma si trova fuori dai confini dell’Aude e questo giustifica l’assenza. Raggiungendo un certo numero di timbri, si ha diritto a un libro. Facciamo di nuovo una passeggiata per Saissac. Il paese conserva la sede di un’importante tessitura che aveva dato lavoro agli abitanti al tempo del Re Sole, e una casa risalente al 1200, ma quello che più ci è piaciuto, è stato l’itinerario delle fontane e degli antichi lavatoi in pietra, che avevano cambiato la vita delle donne fino a quel momento costrette a lavare i panni in ginocchio in riva al fiume e ad ammazzarsi di fatica trasportando pesanti secchi d’acqua. La mostra ricorda come questi manufatti che noi diamo per scontati sono stati nella loro umiltà davvero rivoluzionari.
Lasciamo Saissac diretti all’abbazia di Saint Papoul. Ce n’è un’altra poco lontano, l’abbazia di Villelongue, ma dai pieghevoli sembra troppo ammalorata per essere interessante, e la stessa proprietaria de “La Montagne Noire” ci ha confermato che della struttura originaria è rimasto ben poco. Sia come sia, per quegli sbagli che ogni tanto facciamo, ci ritroviamo proprio sulla strada per Villelongue. Parcheggiamo in totale solitudine accanto all’abbazia, ci guardiamo in faccia e Fabrizio dice: “Ormai siamo qui, vediamo di che si tratta”. Così entriamo e la signora alla reception ci dà tutte le spiegazioni, forse felice di vedere qualcuno. L’abbazia è in rovina, è vero, ma quello che resta è molto ben curato. Nel refettorio troviamo una mostra che parla del monachesimo cistercense e della figura di Bernardo di Chiaravalle, che predica la crociata in Terrasanta e al tempo stesso inveisce contro quelli che approfittano di questa chiamata per fare strage di ebrei, sostenendo che chi tocca un ebreo tocca il corpo di Cristo. Ci sono anche delle fotografie di abbazie sparse ovunque, comprese le due italiane Casamari e Chiaravalle della Colomba, a indicare una comune base europea, religiosa e culturale. All’esterno, sopravvive un frammento di chiostro, i cui archi sono sorretti da due coppie di colonnine, tranne un arco dove le colonnine sono cinque e oltre alle decorazioni vegetali e animali sono presenti alcuni volti (qualcuno dice di donna) talmente piccoli che trovarli è questi una caccia al tesoro. E’ abbastanza strano che una decorazione simile si trovi in un’abbazia cistercense, per vocazione molto austera.
Oltre al chiostro, c’è un prato ispirato al giardino claustrale, dove alcune amache invitano a prendere un po’ di riposo, e una pescaia, in ricordo del fatto che i monaci non mangiavano carne. L’abbazia di Villelongue è proprietà privata, e abbiamo il piacere di conoscere la proprietaria, una signora che non dimostra i suoi novantasette anni e che ci dice con evidente dispiacere che vorrebbe riportare l’abbazia al suo splendore, ma non è possibile, i lavori di restauro sono troppo costosi, e lei si accontenta di tenere pulito. Nella chiesa, le cui volte sono crollate, saliamo una scala che conduce a una finestra chiusa, dove è possibile vedere una delle stanze in cui vive la signora.
Soddisfatti dalla visita a questa sorta di “abbazia a cielo aperto”, partiamo alla volta di Saint Papoul, lungo stradine che attraversano campi di girasoli e fiordalisi, oltre i quali la vista spazia fino ai Pirenei.
Raggiungiamo l’abbazia, col suo chiostro ben conservato e una chiesa il cui interno raccoglie un insieme di stili di tutte le epoche, dando così un’impressione di disordine, mentre l’esterno è pregevole. La struttura attuale data dal 1361, però la sua fondazione ad opera di Pipino il Breve è del 768, ed era considerata un avamposto del regno franco. Si dice che i monaci fossero troppo poveri per pagare le tasse, e che il re Luigi VII si accontentasse di essere pagato con preghiere. La leggenda narra che Saint Papoul fosse discepolo di San Pietro, mentre in realtà visse nel III secolo ed era discepolo di San Saturnino, primo vescovo di Tolosa. La confusione sembra nasca dal fatto che questo sant’uomo viveva in una foresta detta “di Antiochia”. Morì martire, ucciso da un colpo di clava che gli staccò una parte del cranio, ma, come nella leggenda di San Dionigi, raccolse personalmente questa parte e la poggiò su un ceppo, dove il suo sangue si dice fosse ancora visibile qualche secolo or sono.
LinguadocaCastello crestaNel XVI secolo, l’abbazia divenne possesso personale di Caterina de Medici, che nominò alcuni vescovi fiorentini suoi parenti e chiamò vari artisti dalla Toscana per abbellire la chiesa. Non troviamo più le loro tracce perché le guerre dei religione tra il 1570 e il 1595 e la Rivoluzione Francese hanno spogliato il luogo dei suoi tesori.
Torniamo verso Saissac attraversando paesi piccoli e ricchi di storia, e raggiungiamo Lastours, che con i suoi quattro castelli arroccati lungo ripidi pendii, presidiava l’accesso alla Montagna Nera e alle sue risorse minerarie. All’ingresso, un cartello molto ben fatto spiega come flora e fauna riescano a resistere alla calura. Sarà la fortuna del turista fai-da-te, ma quando arriviamo, il sole concede una tregua. I castelli non sono più quelli catari, che si trovavano a un livello più basso e furono rasi al suolo dopo una durissima resistenza. Il re di Francia li fece ricostruire più in alto, e benché il sentiero che li collega non presenti pericoli e sia fornito di protezioni nei punti più esposti, è bene muoversi con una certa prudenza, dato che sotto si spalancano veri e propri dirupi.
Ci sono alberi con foglie quasi argentee, fiori bianchi profumatissimi e lucertole grigie che si mimetizzano perfettamente lungo le rocce e i muri dei castelli. La vista è superba, da qualunque parti si guardi. Lungo il tragitto si apre una grotta nelle cui vicinanze è stato trovato lo scheletro di una ragazzina vissuta nell’Età del Bronzo, con un’acconciatura di tipo egizio o miceneo, a testimonianza che il luogo era già frequentato in tempi remoti e che esistevano contatti commerciali con l’Oriente.
Dappertutto ci sono pannelli esplicativi puntuali e interessanti, e ogni castello ha una sua caratteristica. In uno di questi, si sale lungo una scala a chiocciola completamente immersa nell’oscurità. Mentre scendiamo, un signore, in paziente attesa della moglie che sta riflettendo se salire o no, commenta filosoficamente che nel Medioevo non c’era la luce elettrica. Un ruzzolone, per quanto storico, non è proprio il modo migliore per inaugurare la visita alle Cittadelle delle Vertigini, in ogni caso va tutto per il meglio, ed anche la signora si decide a salire.
Noi raggiugiamo l’ingresso principale voltandoci ogni tanto perché come inizio non siamo stati per nulla delusi. E’ un luogo a cui si adattano bene le parole del poeta Antonin Perbosc, quando nel 1896 scriveva a Montségur che le migliaia di fiori sbocciati sulle mura dei castelli sono bocche dove il silenzio parla e che la mano tremante si guarderà dal cogliere.
Riprendiamo la strada diretti a Limoux, dove ci fermiamo all’Hotel des Arcades (rue Saint Martin 96), il cui proprietario è un giovanotto davvero gentile e alla mano. I suoi nonni, ci dice, venivano dal Veneto, e quindi parla anche un po’ italiano. La camera che ci dà si affaccia sul lato sud della chiesa di San Martino, è alla stessa altezza del tetto e quindi più alta dei finestroni gotici istoriati. Ci incuriosisce il fatto che portino tutti la stella di Davide.
Dopo una veloce doccia, ci accorgiamo di aver smaltito la colazione del mattino e ci concediamo una cena a base di yogurt di pecora alla castagna e tanta frutta.

12 luglio
LinguadocaPrendiamo la colazione in compagnia di pochi altri clienti. Sabato però arriva il Tour de France e l’albergo è tutto prenotato.
La formula all-you-can-eat e la bontà dei prodotti ci permette di ritardare l’orario del pranzo, che spesso è un picnic in mezzo al verde all’ora che vogliamo noi. Facciamo la spesa in un Intermarché poco fuori Limoux e ci dirigiamo verso il castello di Puilaurens, che si raggiunge passando dal Défilé des Pierres Lisses, una gola selvaggia e strettissima tra Quillan e Axa.
CieloLa fortezza si vede già dal basso, e dal basso sembra ben conservata, anche se non è così. Il suo signore simpatizzava per gli eretici, ospitando quelli che fuggivano ma evitando di schierarsi apertamente in loro favore. La sua neutralità risparmiò il castello dalla distruzione, ma la Pace dei Pirenei del 1659, sottoscritta tra la Francia e la Spagna con la firma del cardinale Mazzarino, spostò il confine più a sud e privò di importanza i presidi francesi. Quando la guarnigione che ospitava se ne andò nel 1800, la popolazione utilizzò le pietre del castello come materiale da costruzione.
Per raggiungerlo si percorre un sentiero botanico immerso nel bosco, non difficile, ma è opportuno utilizzare scarpe adatte, poi si raggiunge una serie di gradini che portano alle mura. Un operaio è intento a lavorare alla manutenzione delle luci con un equipaggiamento che farebbe invidia a Messner, tutto imbragatura, casco, corde e moschettoni, e non stupisce, dato sotto i suoi piedi si apre un baratro. Alla biglietteria è disponibile una guida in ottimo italiano. Esplorando l’interno, entriamo in una delle torri, fornita di catene di acciaio per tenersi saldi e che si affaccia su un punto strategico, da cui si potevano controllare diverse vallate. La torre più interessante è quella della Dama Bianca, dove un “condotto portavoce”, un’apertura verticale, metteva in comunicazione i vari piani della torre. Bianca di Borbone, fermatasi a Puilaurens durante un viaggio, era andata sposa per ragioni politiche al re di Castiglia e Léon, don Pedro il Crudele, che la sposò controvoglia e fece di tutto per tenerla lontana da sé, finché la fece imprigionare e uccidere. Forse da qui deriva il suo meritato soprannome, visto che per non farsi mancare nulla, aveva eliminato anche suo fratello accusandolo di aver avuto una relazione con Bianca.
Poiché il castello, data la posizione, non aveva alcuna sorgente, l’approvvigionamento idrico era assicurato dalle cisterne che raccoglievano l’acqua piovana. Ce ne sono due, ancora ben conservate, che presentano uno strano colore rossiccio, dovuto a una mistura di calce, scorie metallurgiche, aceto e corteccia di bruciata di quercia che permetteva un’impermeabilizzazione impeccabile. E’ stata conservata perfino una latrina protetta da una grata, che convogliava i bisogni degli abitanti dentro le mura. L’interno è in fase di recupero, ma i segni del tempo si vedono tutti. In compenso, il panorama è eccezionale: le colline circostanti ora sono coperte di alberi fittissimi, ma un tempo non era così. La popolazione praticava la pastorizia e aveva bisogno di ampi pascoli. Il ritorno del bosco è segno dell’abbandono dell’uomo, accelerato dall’arrivo della ferrovia, che ha spinto chi viveva nei villaggi in quota a trasferirsi nella bassa valle. Ora, il taglio degli alberi è una risorsa economica, infatti non è raro lungo le strade imbattersi in segherie. Terminata la visita decidiamo di visitare Bugarach, più che altro per capire che cosa abbia di tanto speciale da essere indicato come l’unico paese che sarà risparmiato dalla fine del mondo prevista per il 21/12/2102.
La strada per Bugarach non è ben indicata, occorre salire in direzione del Col Saint Louis, poi scendere. Il panorama è veramente bello, anche se più selvaggio della Linguadoca dolce e collinare che ci aveva accolto all’inizio con i campi di girasole e le abbazie.
Il picco di Bugarach, punto più alto delle Corbières, è imponente, da qualunque parte si guardi, e sembra effettivamente proteggere con la sua mole il paese, costituito da pochissime case. La chiesetta in stile gotico, disordinatissima, somiglia a un deposito di immagini sacre che la gente, non sapendo bene che farne, ha portato lì. Sembrava chiusa, in realtà c’è una porta pesantissima che un cartello all’interno consiglia di tenere chiusa soprattutto quando tira vento. Insomma un posto dimesso, tranquillo, il cui sindaco – probabilmente in preda allo sconforto – cerca di difendere dai catastrofisti convinti che qui sarà l’unico posto dove il 21 dicembre 2012 non succederà uno sfracello. La mia personale opinione è che il picco di Bugarach è una montagna bellissima e che quello vale il viaggio, al di là delle favole a cui si è comunque liberi di credere. Notiamo con piacere, in questo posto così piccolo e sperduto, un bibliobus che sta facendo il giro delle case.
La prossima meta è il castello di Arques. Ci fermiamo per il picnic in un relais accanto ad un corso d’acqua e da cui si vede il castello. Quando però vogliamo visitarlo, scopriamo che è tutto circondato da proprietà private e non si riesce a raggiungerlo. Un po’ perplessi, ci aggiriamo per il paese, non trovando anima viva a cui chiedere informazioni e cominciando a sospettare di aver sbagliato posto. Incontriamo alcuni uomini impegnati a ristrutturare l’esterno di una casa e domandiamo se il castello di Arques è proprietà privata. Loro rispondono, in un francese stentato e con un forte accento inglese, che non hanno ben capito. Riformulo la domanda nella loro lingua e sembrano più confusi di prima. Andiamo avanti così per un po’, con me che penso di avere a che fare con olandesi e loro che continuano a scusarsi per non riuscire a rispondere a tono. Un signore francese passa per caso, si unisce alla conversazione scusandosi di non parlare bene italiano, e non si comprende perché, essendo riuniti intorno ad una umile casetta in ristrutturazione, qualcuno si sia preso il disturbo di scendere a confondere le lingue. Alla fine tutto si spiega: il castello non è quello di Arques, è un maniero privato che non si può visitare. Una volta capito questo, tutti riescono miracolosamente a capire tutto, qualunque cosa si dica e in qualunque lingua, e finisce a risate e pacche sulle spalle.
Trovato il castello di Arques, di cui è rimasto solo il dongione, ci viene fornita una guida in italiano che al contrario di quella ben fatta di Puilaurens, è piena di strafalcioni comici. Il castello, pur non avendo origini catare, è inserito nel circuito, e nonostante le guerre di religione e gli assalti delle truppe spagnole, non ha avuto bisogno di grandi restauri. Situato su tre piani, ad ogni piano sono proposti indovinelli “storici” la cui soluzione si trova al piano superiore, il che rende la visita simpatica e coinvolgente.
Le mura del castello non esistono più, però si può visitare la cantina in una costruzione d’angolo e il piano superiore. Lo troviamo occupato da un professore di contrabbasso intento a provare per un concerto serale. In paese, visitiamo la Casa Dèodat Rochè, luogo di un’esposizione permanente sul catarismo, dove si contesta apertamente la teoria che i catari fossero pagani o manichei e Montségur, la loro più famosa roccaforte, un tempio dedicato al sole, mentre si afferma che il catarismo era una vera religione cristiana, seppur dissidente. Per chi è interessato a temi a un tempo storici e spirituali, la visita a questo museo piccolo ma ben fatto è consigliabile.
Da Arques, raggiungiamo Rennes Le Château, posto amatissimo da chi pratica esoterismo. E’ un posto assolutamente da vedere per il panorama mozzafiato, che spazia dai Pirenei al Pic de Bugarach, simile un’isola emersa dalla pianura sottostante. Nella chiesa, che torna in tutte le salse in certi programmi televisivi perché sarebbe all’origine della misteriosa ricchezza del suo parroco vissuto nell’Ottocento, l’abate Saunière, pur essendo ordinata e ben tenuta, si respira un’atmosfera vagamente inquietante. Non tanto per l’orientamento antiorario delle stazioni della Via Crucis (abbiamo trovato questa disposizione anche in altre chiese), o per il fatto che all’ingresso vi sia scritto in latino “questo luogo è terribile”, quanto per il fatto che l’interno è molto buio e rimane tale dopo che la vista si è abituata. L’attuale parroco, sicuramente preoccupato che i visitatori vengano con un secondo fine (le rovine di Saissac insegnano), ha messo un cartello in fondo alla chiesa per ricordare che per il Signore l’unico ed autentico tesoro sono gli esseri umani, il che dovrebbe mettere un freno all’incontrollabile desiderio di prendere vanga e piccone e scavare nella chiesa alla ricerca di chissà quale tesoro nascosto. Mentre all’esterno ammiriamo i Pirenei con la loro disposizione che ricorda le quinte di un teatro, notiamo alcuni strani personaggi che si aggirano intorno e che giustificano il richiamo scritto del parroco. Ci viene spontaneo parlare di quegli autori che spacciandosi per storici scrivono libri che diventano best seller e trovano davvero un tesoro, grazie a chi ci crede e questi libri li compra.
Sulla strada del ritorno, ci fermiamo ad Alet les Bains, un suggestivo paese medievale, con un complesso abbaziale un po’ malridotto, che a causa dell’orario possiamo vedere solo dall’esterno. Alcune case sono decorate con un sotto gronda che le rende particolari. Ci colpisce la gentilezza delle persone. Non ce ne sono molte in giro, ma quelle che incontriamo, compresi i bambini che giocano in piazza, ci salutano come se ci conoscessero. Restiamo invece a bocca aperta davanti a una casa il cui pluviale è tagliato a metà: le acque, che in caso di pioggia scroscerebbero sulla testa dei passanti, sono convogliate in un enorme imbuto di metallo. Perché abbiano messo un imbuto anziché portare il pluviale fino a terra, resterà per noi un mistero più indecifrabile di Bugarach e la profezia maya.
Per consolarci, una volta rientrati a Limoux, troviamo un locale poco lontano dall’albergo e terminiamo la giornata con due buone crepes.

13 luglio
Linguadoca_17TombaStamattina facciamo un giro al mercato, dove non resistiamo alla tentazione di comprare due tovaglie su cui si srotolano i caldi colori provenzali. Le strade sono percorse da carovane di macchine e furgoni da cui sono lanciati foglietti gialli. Domani arriverà il Tour de France. Il nostro programma per oggi prevede la visita all’abbazia di Saint Hilaire, e al museo degli strumenti musicali medievali di Puivert.
L’abbazia di Saint Hilaire si trova lungo una stradina panoramica che attraversa le colline coltivate con una distesa di vitigni da cui origina la Blanquette, che, secondo la tradizione, è il primo vino spumante secco della storia umana. Creato dai monaci di Saint Hilaire ben duecento anni prima dello Champagne, la prima testimonianza storica di cui disponiamo risale al XVI secolo, quando il duca de Joyeuse ne ordinò un certo numero di ceste.
Alla biglietteria ci accolgono due donne, una signora e una ragazza. Quando esprimo il mio compiacimento perché in questi luoghi è impiegato personale giovane, la più anziana mi dice che il sindaco di Saint Hilaire ritiene importante non solo dare lavoro ai giovani del luogo, ma anche coinvolgerli perché siano sensibilizzati alla conservazione e alla tutela del patrimonio storico e artistico. La ragazza ci spiega cosa vedere e ci fornisce un testo scritto.
Le abbazie di Saint Papoul, Saint Hilaire, Fontfroide, come le cattedrali di Narbona e Carcassonne, sono esempi di come il gusto gotico del nord si fosse imposto dopo la crociata contro gli albigesi. Visitiamo il chiostro e la chiesa, dove la cappella di destra conserva l’altare scolpito dal Maestro di Cabestany, uno scultore itinerante vissuto nel XII secolo il cui stile lo rende facilmente riconoscibile, ad esempio nella forma triangolare dei volti o negli occhi con un buco di trapano da ogni lato. Oltre che in Francia e in Spagna, ha lasciato segni del suo passaggio in Italia.
L’altare è abbellito da un bassorilievo con scene del martirio di San Saturnino, trascinato dai tori lungo le vie di Tolosa. La guida spiega il significato di ogni scena, e come sempre mi colpisce che alla necessità di utilizzare tante parole corrispondano poche, folgoranti immagini. Il refettorio è dominato da un pulpito da cui il lettore leggeva ai confratelli radunati per il pasto brani della Scrittura, e su cui si può salire per provare l’acustica perfetta del luogo. Risale al XIV secolo ed è ritenuto unico in Francia.
Altri posti interessanti da vedere sono le cantine intagliate nella roccia, che conservavano la Blanquette, e la sala dell’abate, rimaneggiata dai commendatari inviati dal re di Francia, sotto la cui autorità era passata l’abbazia. Si denota che si trattasse di laici non solo per la presenza di un bel soffitto a cassettoni (l’unico esempio in Francia di soffitto a cassettoni che funge da pavimento per la stanza superiore) ma anche da dipinti con scene erotiche. Fino a poco tempo fa, la stanza vicina era la sede delle Poste, ed ora è in fase di restauro. Quando i monaci se ne andarono, l’abbazia fu utilizzata come mercato comunale e come scuola, e forse a questo periodo risale una sorta di gioco degli scacchi inciso sulle pietre del chiostro. La signora della biglietteria ci spiega che alcuni profondi graffi che segnano una colonnina sono dovuti al continuo affilare dei coltelli dei macellai. Ci mostra poi una pietra incastonata nel muro che è l’unica testimonianza della primitiva abbazia, di epoca carolingia. Sembra contenta di accompagnarci per quanto possibile nella visita, perché a parte noi ci sono solo due signore.
Fatta la spesa all’Intermarché, ci fermiamo per il picnic lungo la strada. Oggi però fatichiamo a trovare tavolo e panchine libere, perché dappertutto si affollano camperisti in attesa dell’arrivo del Tour.
Raggiungiamo il museo di Puivert, collocato su due piani. Il pianterreno è occupato dalla sezione etnografica, dove sono illustrate le attività del luogo, tra cui l’artigianato di pettini in legno o corno di bue. Al primo piano, si trova il museo degli strumenti musicali – flauti, liuti, organi, cornamuse – creati sulla base degli strumenti scolpiti sui capitelli della sala dei musicisti nel castello di Puivert. La realizzazione di questo “instrumentarium” ha richiesto la collaborazione di archeologi, liutai, ed esperti di musica medievale. Gli strumenti sono piccoli e leggeri, facili da trasportare. In una saletta vicina, è possibile ascoltare musica dell’epoca. Alcuni brani sono decisamente ostici, mentre altri più affini alla nostra sensibilità e ci appaiono meno noiosi. Probabilmente abbiamo perso la capacità di cogliere certe sfumature. Leggiamo le brevi biografie dei cantautori vissuti un migliaio di anni fa, e le parole malinconiche dell’abate Josè Servan che recitano: “Nella nostra Occitania, tutte le città, tutti i castelli, erano nidi di poesia. I trovatori cantavano la bellezza, la primavera e la felicità di vivere”
Porta castelloIn giardino, un locale custodisce una distilleria provvista di grossi alambicchi. Si può assistere a un filmato in cui l’anziano monsieur Aristide spiega come distillava la frutta con due piccoli alambicchi collegati da un tubo, che i distillatori portavano di fattoria in fattoria fino a quando, dopo la prima guerra mondiale, fu inaugurata la distilleria pubblica. Il tasso alcolico di questa acquavite (acqua della vita, come traduzione letterale dal francese) pare sia molto basso.
LinguadocaAl castello di Puivert, che non fa parte della Routes du Pays Cathare perché privato, si arriva lungo una strada molto dissestata. Purtroppo è già chiuso e ci accontentiamo di guardarlo da fuori.
All’inizio del XIII secolo apparteneva alla nobile famiglia dei Congost, che ne furono spodestati in favore di un compagno d’armi di Simon de Monfort, il comandante in capo delle truppe crociate. Del castello originale, dopo l’assalto del 1210, non è rimasto quasi nulla. All’inizio del XIV secolo la famiglia de Puivert, proveniente dal nord della Francia, acquisì il castello e si preoccupò più dell’estetica che della funzione militare. Dunque possiamo collocare questo castello nell’epoca di transizione tra le fortezze a vocazione strettamente militare e le dimore rinascimentali che avevano funzioni di residenza e non sdegnavano la bellezza ed il comfort.
La stradina invece non ha nulla di confortevole nemmeno negli anni Duemila e bisogna scendere con la stessa precauzione impiegata per salire. Poco prima di Limoux ci fermiamo per fare il pieno, ma la signora alla cassa ci dice che le pompe tre e quattro non funzionano, e anziché mettere un bell’avviso, chiude lo sportello e scompare, così mi trovo io ad avvertire chi si ferma che le pompe tre e quattro “ne marchent pas”, almeno fino a quando non riesco a riguadagnare la nostra macchina.
A Limoux posteggiamo come sempre in Place du Presbytère, che è vicino all’albergo e sembra poco conosciuta. Infatti c’è spazio a volontà, mentre da altre parti non si trova nulla. Domani dovremo spostare la macchina prima delle 14.00, a causa dell’arrivo del Tour, così come dovremo lasciare la camera, già prenotata da tempo. La sera assistiamo allo spettacolo dei fuochi d’artificio sull’Aude, dove si è radunato l’intero paese per festeggiare il 14 luglio.
I riflessi nell’acqua raddoppiano il fascino dell’evento, mentre la musica sembra tratta da un film dell’orrore. La festa continua in piazza, con canti e balli, mentre l’orchestra, forse per scherzo o forse già un po’ brilla, esegue in una pausa “O tannenbaum”, noto canto natalizio tedesco.

14 luglio
LinguadocaLa mattina inizia con la banda, seguita da un gruppo di giovani e di veterani con decine di medaglie al petto. Dietro di loro però c’è meno gente rispetto a quella che ieri ballava in piazza. Andiamo a visitare il museo Petiet. Ci siamo solo noi e alla biglietteria ci spiegano che la palazzina, ora proprietà del comune, apparteneva alla famiglia Petiet, che la utilizzava come proprio atelier. Ancora oggi è sede di corsi di pittura, scultura e scrittura creativa. Le sale sono poche e piccole, ma molto ben tenute e il quadro delle stiratrici di Marie Petiet vale da solo la visita. Sono però interessanti anche le tele con scene della guerra franco prussiana dipinte con grande realismo da Etienne Dujardin-Baumetz, marito di Marie e ministro delle Belle Arti, che promosse le opere di Manet, di Rodin, e di altri, ma la cui carriera fu segnata dal furto della Gioconda nel 1911.
ColtivazioniDopo un po’ di spesa e pieno di benzina fatti in fretta perché alle 12.30 chiude tutto, lasciamo l’albergo e partiamo in direzione del castello di Termes. Purtroppo è in pessime condizioni, non a causa della crociata. Infatti fu demolito nel XVII secolo per evitare che i briganti che infestavano la zona vi trovassero un rifugio sicuro. Vi si accede attraverso una strada che percorre zone piuttosto selvagge e poco coltivate, e poi con una camminata di un quarto d’ora circa prima attraverso il bosco e poi all’aperto. Colpisce la presenza di molte farfalle, che rallegrano il percorso. Del castello, come dicevo, resta ben poco: tracce della sala delle guardie, e una parete con una apertura a forma di croce che ha fatto pensare ai ruderi di una cappella. Non essendo però orientata sull’asse est-ovest, non è certo che si trattasse proprio della cappella, e quindi il mistero legato a quest’apertura particolare rimane. Per quanto ammalorato, il castello di Termes è una vera cittadella delle vertigini e permette di spaziare sul paese e sulle diverse valli che poteva Linguadocacontrollare agevolmente. Un tempo esisteva anche un altro castello posto a difesa delle sorgenti, indispensabili per sostenere un assedio ma ora non ne rimane più traccia, e tutto quello che si può vedere, è un bel mulino ad acqua nel fondovalle. Pierre di Vaux de Cernay, monaco e storico che partecipò alla crociata accanto a Simon de Monfort, scriveva intorno al 1212 che questo castello possedeva “una forza stupefacente e incredibile. Umanamente sembrava impossibile prenderlo”. Simon de Monfort fece di tutto per conquistarlo, giudicando l’impresa necessaria per piegare Carcassonne, ma Raymond de Termes resistette valorosamente, al punto che solo la mancanza di acqua lo costrinse a giungere a un accordo che prevedeva la temporanea cessione del castello a Monfort, che lo avrebbe restituito la Pasqua seguente. Il comandante crociato accettò volentieri, visto che fra i suoi uomini serpeggiava il malcontento e molti cominciavano a disertare. Senonché, scoppiò un terribile temporale che portò l’acqua tanto desiderata e Raymond de Termes cambiò idea e resistette ancora alcuni mesi. Alla fine però fu catturato e il castello passò di mano in mano fino a diventare fortezza reale. Restano pochi ruderi anche del villaggio dei contadini ai piedi del castello, mentre l’attuale paese di Termes, che non ha più di cinquanta anime, è suggestivo e caratteristico. All’interno della chiesa, le stazioni della Via Crucis sono collocate in senso antiorario, come a Limoux, il che conferma che non è una peculiarità di Rennes le Château. Sul fondo della chiesa, in stile gotico, è narrata la vita del soldato romano San Martino, che essendosi fatto cristiano, non avrebbe più voluto combattere e al tempo stesso non considerava onorevole disertare. Il ritiro inspiegabile dell’esercito nemico risolse il problema. In questa zona la gente è devota anche di Santa Germana, una ragazza maltrattata dalla matrigna e forse morta di stenti. Sorpresa a portare nascosto nel grembiule il pane per i poveri, fu forzata ad aprirlo e agli occhi degli astanti apparvero solo delle rose, un miracolo attribuito a diverse sante della tradizione cristiana.
Da Termes passiamo da Villerouges Termenès, il cui castello è situato nel cuore del villaggio, e proseguiamo lungo una strada strettissima, selvaggia e deserta, fiancheggiata da rocce bianche che affiorano come isole.
Ci fermiamo a Durban, in una Gite d’étapes chiamata Maison Messange. E’ una vecchia casa con un giardino pieno di gatti molto amichevoli, che appartiene a un pittore olandese. Ci dice di essere abbastanza quotato in Olanda, mentre qui non è ancora molto conosciuto e immagina di diventare famoso dopo la morte, come Van Gogh. Sistemate le borse, andiamo a fare il pic nic in riva al fiume, di fronte alla casa del pittore. Durban, nel Medioevo, subiva l’influenza di Narbona e non di Tolosa. Il castello, che sorge nel punto più alto, risale all’anno 1000. I suoi proprietari, forse di origine spagnola, non erano catari e questo salvò il castello dalla distruzione. Tuttavia, dopo seicento anni, la famiglia si estinse e i lontani eredi pensarono di vendere il maniero ad un impresario che lo usò come cava di pietre. Il castello è stato così smantellato poco a poco e solo l’acquisto da parte del comune ha salvato ciò che restava.
A Durban lo spettacolo dei fuochi è previsto per la sera, così abbiamo l’occasione di festeggiare due volte il 14 luglio. E’ accompagnato da una bella colonna sonora, e con le luci basse, il castello che appare e scompare, le stelle, gli oleandri rosa che oscillano al vento e la gente con il naso all’insù che applaude, è davvero una serata deliziosa.
Ci sono anche i baracconi, con il tirassegno e altri giochi. Incrociamo due ragazze che ridono in un modo che suscita anche la nostra ilarità e una di loro, con voce tenorile, indica l’amica e ci dice: “Elle a gagné des culottes!”

15 luglio
LinguadocaVeduta castelloOggi andiamo a visitare l’abbazia di Sainte Marie d’Orbieu a Lagrasse, uno dei borghi più belli di Francia. La raggiungiamo passando da un grande mercato delle pulci. Entriamo in chiesa per la messa, ci sediamo e capiamo subito che c’è qualcosa che non torna. Parla solo il prete, dando le spalle ai fedeli. Sembra di assistere a un rito preconciliare, ed è effettivamente così. Ci viene nostalgia di Boscodon
Dal punto di vista artistico, la chiesa attuale, pur avendo origini antichissime, risale al 1200 ed è molto bella. Il monastero è monumento storico e appartiene al Conseil Général de l’Aude, che ne sta curando i restauri. Interessanti sono la cappella dell’abate, con la pavimentazione policroma, il dormitorio a dir poco immenso, la cantina sottostante, e il forno dove i lavoranti disponevano di acqua corrente grazie a una canalizzazione.
Dopo una veloce incursione nella libreria, proseguiamo per Carcassonne, la “Meraviglia del Mezzogiorno”, che non ha bisogno di molte parole.
Mentre la osserviamo dall’esterno, una signora ci dice che i fuochi di artificiali del 14 luglio che partono dalle celebri mura, “les Remparts”, sono le prove generali per quelli di Parigi. Visitiamo il castello interno, con una audioguida che ci fornisce Nura castellotutte le informazioni. Impariamo subito a distinguere le torri a forma di U, risalenti alla fine della dominazione romana.
Nel 1209, “Carcassonne fu presa – come narra un trovatore ignoto – e nella regione non restò più nessuno, né bambino, né adulto”. Qualcuno dice che il suo signore, Raymond de Trencavel, morì di crepacuore nel suo palazzo, mentre altri sostengono che Simon de Monfort lo fece avvelenare.
La chiesa di Saint Nazaire, in stile romano-gotico, mostra il passaggio tra lo stile meridionale e quello settentrionale. Nel transetto presenta due enormi rosoni posti uno di fronte all’altro. Il sole, sposandosi, crea nel rosone a nord una ruota di luce che si muove simboleggiando lo scorrere del tempo, mentre nel rosone posto a mezzogiorno la luce è più statica e simboleggia la cessazione del tempo e l’ingresso nell’eternità.
LinguadocaLa chiesa conserva la pietra tombale di Simon de Monfort, la cui salma fu portata via dal Piedi castellofiglio per timore di vilipendio (potremmo dire di un linciaggio post mortem del più importante condottiero al soldo dei reali di Francia).
Rientriamo a Durban sotto il cielo azzurro e le nuvole che nella parte scura non sono grigie ma color lavanda, attraverso gole bianche e calcaree, dove il panorama si allarga e si restringe a più riprese. Le Corbières sono celebri per questo aspetto aspro, addolcito però dalle parti coltivate a vite.
Leggendo che Carcassonne deriva il suo nome da quello di una donna, Carcasse, sposa di un saraceno, che avrebbe suonato le campane quando Carlo Magno tolse l’assedio alla città (Carcasse sonne) ci diciamo assolutamente certi che si tratti di una teoria nata dopo una generosa bevuta di rosso di Corbières.

16 luglio
LinguadocaPranzoLa mattina inizia con la colazione in giardino, in compagnia delle gatte che non resistono alla crema di latte offerta loro nel palmo della mano.
Partiamo per Tuchan, e saliamo ad Aguilar, uno dei castelli che con Termes, Puilaurens, Quèribus e Peyrepertuse ( i “cinque figli” di Carcassonne) formavano la linea difensiva al confine con la Spagna. Si accede al castello di Aguilar attraverso una stradina stretta tra le viti, mentre la porta è fiancheggiata da rosmarini.
E’ in piena fase di restauro, per cui ci aggiriamo tra i ruderi con un po’ di attenzione e ci fermiamo a contemplare il panorama. Il castello apparteneva a Olivier de Termes, figlio di quel Raymond che si era opposto fieramente a Simon de Monfort. Prima faydit, cioè signore spossessato dei beni in quanto protettore dell’eresia catara, rientrò in possesso di una parte delle sue ricchezze dopo la sottomissione a Luigi IX. Assistette il re in punto di morte, a Tunisi, e lui stesso, che aveva contrastato in tutti i modi la crociata contro gli albigesi, vendette il castello di Aguilar per finanziare una spedizione militare in Terrasanta e morì a San Giovanni d’Acri combattendo contro i musulmani.
Per raggiungere il castello di Quéribus, ultimo a cadere in mano francese ben undici anni dopo Montsègur, si deve raggiungere il comune di Cucugnan, facendo attenzione perché le indicazioni stradali lasciano a desiderare. La strada per raggiungere il parcheggio ha una pendenza del 17%, mentre il sentiero che sale al castello è lungo ma agevole.
LinguadocaL’etimologia di Quéribus è incerta, si pensa possa significare “luogo abitato sulla roccia”. Un cartello avvisa che le visite sono proibite durante i temporali e per comprenderne il motivo è sufficiente guardare dal basso: il castello forma un tutt’uno con la rupe, e il dongione si innalza come un faro sulla pianura.
CoccaforteAll’ingresso, anche oggi che splende il sole, sembra di entrare nella galleria del vento. Volerebbe via tutto, noi compresi, se non tenessimo la testa bassa. La vista è strepitosa e spazia dai Pirenei al Mediterraneo.
Il signore del castello, Chabert de Barbaira, era un guerriero fortissimo e convinto sostenitore dell’eresia. Quando Quéribus cadde in mano alle armate reali, Chabert era già stato fatto prigioniero dal suo ex compagno d’armi Olivier de Termes, ormai convertito alla causa del re di Francia. All’interno del dongione, la Salle du Pilier è sorprendente: si tratta di uno spazio la cui volta forma il disegno di una palma, sorretta da un unico e potente pilastro circolare. Se si avesse tempo per un solo castello, questo è forse l’unico da non perdere.
In paese, presso il teatro Achille Mir, si può assistere alla pièce del “Sermone del curato di Cucugnan”, racconto occitano che ha ispirato diversi scrittori, tra cui Joseph Roumanille e Alphonse Povenza e i PireneiDaudet, che nelle sue “Lettere dal mio mulino” narra le avventure di don Martin. Il buon curato, per convincere i suoi recalcitranti parrocchiani a comportarsi come si deve e frequentare la chiesa, descrive il suo viaggio nell’aldilà, dove non ha trovato alcun cucugnanese in cielo, ma solo all’inferno, e la sua predica è tanto convincente da convertire tutti i reprobi che lo ascoltano. Il tono del racconto è umoristico e privo di moralismo, come il finale: “Ecco il racconto del curato di Cucugnan, così come mi ha ordinato di Panoramadirvelo quel mattacchione di Roumanille, che l’aveva sentita raccontare da un altro buontempone come lui”
Proseguiamo per il castello di Peyrepetuse, che presenta ambienti vari e più o meno estesi, costruiti in epoche diverse. Il sentiero di accesso richiede scarpe ed abbigliamento adeguato. Una lunga e sconnessa scalinata di sessanta gradini, detta scala di San Luigi, va percorsa con calma ed attenzione, mentre si fantastica sulla quantità di persone che nei secoli hanno percorso la stessa strada. In questi due castelli c’è la possibilità di avere le audioguide ma non in italiano, oppure foglietti che sembrano scritti per esperti di architettura militare medievale, quindi inutili, perché chi non ne capisce, come noi, non ricorda niente di tutti quei nomi astrusi, mentre chi ne capisce, non ha bisogno dei foglietti.
Nel castello di Peyrepertuse si tengono tre spettacoli di falconeria al giorno. Noi arriviamo tardi, ma ci sono tre falconieri, tra cui una ragazza, che si stanno esercitando, per cui ci affacciamo dagli spalti ad osservare il volo dei falchi e la lontana sagoma del castello di Quéribus .

17 luglio
Povenza e i PireneiGiardinoStamattina buona la colazione ma pessimo il conto, dato che il celebrato pittore ci ha sorpreso con una cifra quasi da albergatore svizzero, per parafrasare Jules Verne che nel suo “Viaggio al centro della terra” ha usato un’espressione assai meno carina. Forse è per non aver chiarito bene se la cifra era a persona o a camera, comunque fino a oggi non ci era mai successa una cosa simile.
Ci avviamo sulla strada del ritorno per l’Italia con molte cose ancora da vedere. La prima è l’abbazia di Fontfroide, con visita guidata obbligatoria.
La guida non perde occasione per usare parole sprezzanti verso il Medioevo e l’architettura cistercense, per cui non si capisce se ha della ruggine contro un Ordine religioso in prima fila nella lotta contro gli albigesi o se preferirebbe accompagnare turisti alla Città dello Spazio di Tolosa. Rispetto ad altre abbazie saccheggiate durante la Rivoluzione o addirittura smontate e comprate a pezzi da americani appassionati (vedi il museo dei Cloisters sul fiume Hudson), questa abbazia, fondata dai benedettini alla fine dell’anno Mille, fu acquistata e salvata nel 1908 dalla famiglia Fayet, commercianti di vini ed estimatori di Gauguin e Odilon Redon. Ancora oggi è proprietà privata dei discendenti della famiglia.
La sala capitolare dà l’idea di un bosco con le sue molteplici colonne, mentre sul terreno dell’antico cimitero sorge un giardino con tremila cespugli di rose. Per le finestre del dormitorio dei conversi sono state utilizzate frammenti di vetrate delle cattedrali del nord, guastate durante la Grande Guerra. Il chiostro, luminosissimo, segna l’evoluzione dal romanico al gotico con la sua volta a botte acuta e le nervature a croce.
Voci non confermate affermano che Olivier de Termes sarebbe stato sepolto in questa abbazia, e non a San Giovanni d’Acri, essendone stato un benefattore.
Fuori c’è l’antica chiesa, trasformata poi in ostello, e adornata con una piccola statua in pietra di San Rocco, con il cappello e il bordone, segni distintivi dei pellegrini.
Riprendiamo la strada diretti a Narbona, dove passiamo dall’ufficio del turismo per avere una mappa della città.
Cominciamo col vedere dall’esterno i Palazzi dei Vescovi, utilizzati per mostre ed esposizioni, e la Torre di San Teodardo, sola vestigia dell’epoca carolingia.
Piazza castelloMentre aspettiamo l’orario di apertura della cattedrale, compriamo due gelati, Fabrizio prova il gusto fragola e violetta, io più banalmente vaniglia e caffè, però il gusto violetta merita veramente, e ce li godiamo seduti nel Giardino dei Vescovi, accanto al chiostro. Una signora si avvicina, ci chiede se permettiamo un’intervista e domanda come siamo stati accolti dall’ufficio del turismo, da dove veniamo, che itinerario abbiamo fatto e non crede alla sue orecchie quando le diciamo che abbiamo percorso in lungo e in largo il Paese Cataro in così poco tempo. Alla fine ci regala un libretto con le iniziative turistiche di Narbona, ed è un peccato dover ripartire questa sera stessa.
La cattedrale, dedicata a Saint Just e Saint Pasteur, non è grande, però è molto alta, con una parte dove si accede solo per pregare e un’altra aperta alle visite. Possiede un coro gotico scolpito con scene del Giudizio Universale che, a quanto leggiamo sulla guida, è l’unica realizzazione concreta del progetto medievale. Sfortunatamente, è piuttosto ammalorato, ed anche nel chiostro, pur interessante, ci sono numerose statue decapitate.
All’esterno, proprio di fronte al palazzo comunale, scendiamo a camminare su un tratto della Via Domizia, che collegava l’Italia alla Spagna. Conviene prestare attenzione, perché le pietre sono molto scivolose. Impossibile non apprezzare l’accuratezza di questi manufatti, che hanno anche il marciapiede e la scanalatura per le ruote dei carri. In onore della capitale della provincia narbonese al tempo dei Romani, andiamo a visitare l’Horreum, mercato o magazzino coperto risalente alla fine del I secolo avanti Cristo, dove ci si può calare nello spirito dell’epoca grazie alle ricostruzioni, ai pannelli esplicativi, e ad una voce che sovrasta i rumori tipici di un mercato e grida il latino “Un’anfora di vino vecchio sessanta sesterzi! Un’anfora di vino nuovo quaranta sesterzi!”, e così via con i vari prodotti, il tutto in un ambiente poco illuminato ma dove non si ha mai timore di perdersi nonostante il percorso labirintico. Scoperto nel 1938, non è stato ancora del tutto esplorato.
Tra i reperti raccolti in vari luoghi dell’antica Narbo Martius, le anfore fano la parte del leone, ma troviamo anche iscrizioni, steli funerarie tra cui quella di un addetto alle terme, capitelli, fregi, e altro materiale lapideo.
Ripatiamo per Béziers, una cittadina graziosa sul fiume Orb, completamente distrutta all’epoca della crociata contro gli Albigesi. I cattolici rifiutarono di consegnare gli eretici alle autorità e seguirono la loro stessa sorte, bruciati vivi all’interno della chiesa.
Nella cattedrale dedicata a San Nazario e Celso siamo spettatori di come i raggi del sole, entrando dal rosone di dieci metri di diametro, creino al tramonto dei giochi di luce e colore sulla torre campanaria.
Vi si può entrare e salire in alto, i gradini sono illuminati solo dalla luce che penetra dal rosone, fino ad una terrazza da cui si gode una bella vista sul fiume e la città.
PontiTira un vento forte, anche se non come a Quéribus. Ci sono fogli a disposizione dei turisti, nei quali la chiesa si rivolge all’interlocutore in prima persona per raccontare la sua storia, come un essere vivente.
Povenza e PireneiSeguendo il consiglio delle signora che ci ha intervistato a Narbona, decidiamo di fermarci per la notte a Pésenaz, dove soggiornò Molière. Parcheggiamo accanto a un grande bocciodromo e scopriamo che quelli che stanno giocando non sono allegri pensionati. Si stanno disputando niente meno che i campionati nazionali di petanque, la passione dei francesi, il che ci fa ritenere che sarà impossibile trovare un solo buco per dormire. Invece troviamo una camera in stile provenzale all’Hotel Molière, dove Molière non si è fermato affatto, ma che è comunque molto bello, con il patio interno, coperto, attorno cui girano ballatoi riparati da ringhiere in ferro battuto e su cui si affacciano i corridoi che portano alle stanze. In uno degli angoli, c’è perfino una piccola biblioteca.
Pésenaz ha molti edifici costruiti in stile romanico-gotico, in realtà più recenti, e possiede un gran numero di atelier che ruotano intorno all’attività teatrale e più in generale artistica. Il principe Conti, governatore della Linguadoca, fu mecenate di Molière durante i suoi lunghi soggiorni a Pésenaz, e l’artista si ispirò a lui per la creazione del personaggio del Don Giovanni e al suo confessore per il personaggio di Tartuffe. Ci concediamo una passeggiata serale molto piacevole, arrivando fino all’antico quartiere ebraico.
Troviamo per la prima volta un “passaggio chiodato”, antenato delle strisce pedonali, che in Francia erano create con grosse borchie piantate nel pavé. Poi ci facciamo un dovere di assistere alle gare di bocce, dove i concorrenti, tutti uomini piuttosto corpulenti, giocano sotto gli occhi vigili degli arbitri.
Il clima è cambiato, fa molto caldo, per cui una volta in camera accendiamo il condizionatore. Purtroppo non serve a molto e preferiamo sfidare i rumori della piazza aprendo la finestra.

18 luglio
Povenza e PireneiCi rimettiamo in viaggio seguendo le superstrade, perché non abbiamo più tempo per fermarci a piacere come all’andata. Naturalmente la velocità ha come contropartita una certa dose di noia, dato che questo tipo di strade fiancheggia zone industriali ed artigianali dove non c’è quasi niente che attiri lo sguardo.
Arte biciclettaFacciamo la prima sosta a Montpellier, capitale della Linguadoca e città universitaria, dove studiarono anche Petrarca e Nostradamus. La città, a cui ci avviciniamo attraverso l’Arco di Trionfo, possiede bei palazzi del Seicento-Settecento, e resti romanici e gotici. E’ una città parecchio più giovane di Narbona, se così si può dire, in quanto la sua fondazione risale al 985 dopo Cristo. Al termine della consueta passeggiata senza meta, che ci porta sotto una casa da cui spunta misteriosamente una mezza bicicletta, cerchiamo la chiesa di San Rocco. Non è, come si potrebbe pensare, la Cattedrale. Per quanto sia uno dei santi più venerati in Europa, il culto di San Rocco non è partito dalla sua città natale, ma dall’Italia, che ancora ne conserva il corpo. Nella chiesa di Montpellier, c’è una cappella dedicata alle sue reliquie (un frammento di tibia e il bastone del pellegrino) ed è illustrata tutta la sua storia.
Povenza e PireneiMontpellier sorgeva lungo la Via Domizia e nel Medioevo i pellegrini passavano da qui lungo la strada per San Giacomo di Compostella (il termine Mons Pelerin sarebbe all’origine del nome della città, ma l’ipotesi è controversa). Questa posizione le permise di sviluppare una fiorente attività commerciale e diventare un centro intellettuale rinomato. Nel 1180 vi nacque la prima facoltà di medicina del regno, e forse per questo motivo qualcuno afferma che San Rocco non fosse un semplice pellegrino ma avesse fatto studi di medicina ed utilizzasse le sue conoscenze nella cura degli appestati.
Una volta fuori dalla chiesa, osserviamo stupiti l’edificio di fronte, che mostra un riuscitissimo trompe l’oeil.
Lasciata Montpellier, ci dirigiamo verso il Pont du Gard fermandoci nel paese di Remoulins.
StatuaAll’ufficio del turismo ci indicano diversi hotel e affittacamere. Per comodità, scegliamo l’Hotel du Nord, vicino alla strada per il Pont du Gard. Costa solo 53 euro, la stanza è pulita anche se molto trascurata (tende rotte, persiane scrostate), ed è dunque poco accogliente, come il proprietario, che pretende il pagamento in anticipo e parlerebbe molto più volentieri con Fabrizio che con me ma è costretto a farlo, dato che sono io a parlare francese. Noto che assume questo atteggiamento anche con altre donne. La tromba delle scale mostra una curiosa somiglianza con le torri a forma di U di Carcassonne, e qualche pietra qua a là può far pensare che questo albergo abbia inglobato strutture molto antiche, ma preferisco non chiedere.
Le strade di accesso al Pont du Gard sono disposte in modo da non poter posteggiare da nessuna parte, per cui o si lascia la macchina molto lontano e si affronta una lunga camminata sotto il sole cocente, oppure si arriva vicino e si pagano 18 euro, con la possibilità di visitare tutto il complesso.
E’ indubbio che la sola vista di questo stupefacente manufatto di età romana meriti il prezzo.
Povenza e PireneiAcquedottoCi fermiamo per il picnic accanto a una grotta abitata dall’uomo già trentamila anni fa, poi passeggiamo lungo il fiume e ci sediamo lungo la riva ad ammirare il ponte, che al crepuscolo viene illuminato da fasci di luce di vari colori. Di primo acchito fanno un bell’effetto, poi però acquistano un sapore stucchevole, tanto che il ponte appare in tutta la sua ruvida solennità solo nel breve intervallo tra un cambio di colore e l’altro. Il dépliant che ci hanno dato all’ingresso invita a “condividere una sublime esperienza in un’atmosfera unica”: ci sono altre persone, oltre a noi, seduti o sdraiati su piccole piattaforme di legno che osservano senza esprimere particolare entusiasmo. Non aspettiamo che l’oscurità sia completa, perché la strada per arrivare al parcheggio non è ben illuminata.
La stanza ci accoglie in tutta la sua decadenza e prima di chiudere con precauzione le persiane per paura che si stacchino, diamo un’occhiata fuori. Non ci sono luci artificiali e possiamo vivere un’autentica “sublime esperienza”, quella del cielo stellato.

19 luglio
Povenza e PireneiCon uno stentoreo “Adieu!” al nostro scontroso oste, partiamo in direzione Baucaire. Non ci è piaciuta molto, perché ci appare, come il suo castello, poco curata, mentre basta passare il ponte ed entrare in Tarascona per restare affascinati. E’ indubitabilmente più bella, con le sue ruelles, le viuzze strette. Ci eravamo già stati anni fa, un po’ di corsa, per cui l’unica cosa che eravamo andati a vedere era la casa di Tartarino di Tarascona, il protagonista ingenuo e fanfarone dell’opera omonima di Alphonse Daudet.
PanoramaVisitiamo la cattedrale, in stile gotico, dedicata a Santa Marta. Secondo la leggenda, la famiglia di Lazzaro sarebbe fuggita dalla Palestina a causa delle persecuzioni e sbarcata in Francia. Maria di Giacomo e Maria di Salomè si sarebbero fermate con la loro serva Sara in Camargue, a Les Sainte Marie de la Mer, mentre Maria sorella di Marta (spesso confusa con Maria Maddalena) si sarebbe ritirata in una grotta per vivere in penitenza e preghiera. Lazzaro sarebbe divenuto vescovo di Marsiglia e l’animosa Marta sarebbe stata chiamata a Tarascona dalla gente disperata per i continui attacchi della Tarasque, un terribile mostro mezzo pesce e mezzo anfibio, che uscendo dal Rodano compiva stragi tra gli animali e la gente del luogo. Una volta vinta la Tarasque con la potenza della croce e dell’acqua benedetta, la santa si sarebbe fermata tra la popolazione da lei salvata. La chiesa, tuttora luogo di pellegrinaggio, è stata costruita su una struttura più antica, a sua volta edificata su un sepolcro in cui gli archeologi hanno effettivamente trovato delle ossa e altri reperti che però non possono confermare con certezza la presenza di questo personaggio evangelico. Ci chiediamo se anche lei, come San Francesco con il lupo di Gubbio o San Romedio con l’orso in Trentino, non abbia avuto a che fare con una belva solo apparentemente a quattro zampe….
Poco lontano sorge il castello, che conserva testimonianze della vita di Renato I d’Angiò, ultimo sovrano di Provenza, che a seguito di una serie di disfatte militari (compresa quella che gli fece perdere il regno di Napoli e di Sicilia) si dedicò alle arti e alle feste. Fu lui a trasformare la fortezza in signorile palazzo rinascimentale, fino a quando, diventato proprietà della corona, conobbe varie vicissitudini. Adibito a prigione dal 1700 fino al secolo scorso, sulle pareti leggiamo nomi e date incise dai prigionieri. In alcune teche, sono conservati resti di calze e vestiario, nonché topi mummificati. Un televisore permette di seguire un video a tema, con interviste ai carcerati delle prigioni francesi e dell’importanza del loro reinserimento.
Dalla terrazza si domina il Rodano, con il castello di Baucaire che fronteggia quello di Tarascona dalla sponda opposta.
Terminata la visita, andiamo a mangiare un’insalatona al ristorante di fronte, che ovviamente si chiama Le Chateau. Il cibo è ottimo, e la torta di mele superba. Ci concediamo ancora una passeggiata per le ruelles di Tarascona, e una volta usciti attraverso una delle antiche porte, recuperiamo la macchina (sfidando i cinquanta gradi all’interno) e partiamo per Les Baux de Provence, attraverso una strada intagliata nella roccia calcarea delle Alpilles. Questa piccola catena montuosa che un tempo veniva considerata una propaggine delle Alpi (da qui il nome) e che ora viene considerata parte dei rilievi della Bassa Provenza, è un luogo interessante sia dal punto di vista paesaggistico che culturale.
Povenza e i PireneiLes Baux è un piccolo comune, ma le sue origini sono antichissime e risalgono al Neolitico. Nel Medioevo la famiglia de Baux esercitava una grande influenza e il suo castello era meta di numerosi trovatori. Non a caso Angelo Branduardi ha cantato: “Fuoco e calore nella sue sale, danze, colori, allegria…La casa sua il signore di Baux l’ha costruita sui sassi e ancora lei rimane là, e guarda passare gli anni”.
Il villaggio è ben conservato e se non sono più i “passi di mille cavalieri” a segnare i suoi sentieri, ci pensano i turisti ad affollare i vicoli e le stradine.
Per prima cosa, entriamo nel museo dei Santon, le tipiche statuette del presepe in abiti provenzali, alte anche 50 centimetri. In un presepe, un agnello spunta da una carretta circondata da torce. Nella notte di Natale, una carretta con l’ultimo agnello nato viene trainata in processione, in onore dei pastori che per primi ricevettero l’annuncio della nascita di Gesù. Anche i Re Magi rivestono molta importanza, in quando i signori de Beaux vantavano una discendenza diretta da Baldassarre. Il loro stemma era una stella con sedici raggi, ancora oggi simbolo del comune.
Preso il biglietto per l’ingresso al castello e l’audioguida, ci immergiamo nell’atmosfera dell’Età di Mezzo anche grazie a due animatori che organizzano uno spettacolo di catapulte, utilizzando sacche di plastica piene d’acqua. Armare una catapulta richiede una notevole forza fisica, tanto che gli animatori scelgono tra il pubblico quattro o cinque uomini da coinvolgere. Il lancio dei palloni di plastica dà una pallida idea di che cosa significasse ricevere contro le mura dei veri massi.
GrotteIl castello non possedeva sorgenti e dipendeva dalla vicina Fontvieille per il rifornimento d’acqua. Attraverso la “Porta dell’acqua”, passavano persone o asini carichi del prezioso liquido e in caso di assedio gli abitanti potevano contare solo sulle cisterne. Alice, signora di Les Baux e contessa di Avellino, disponeva di una biblioteca in cui figuravano i best seller dell’epoca, tra cui la storia di Tristano e Isotta, e le gesta di Lancillotto del Lago. Alla sua morte, avvenuta nel 1426, Les Baux passò ai conti di Provenza e in seguito alla corona francese, finché, diventata una piazzaforte degli ugonotti, attirò le ire del cardinale Richelieu che in cambio della salvezza della cittadina, pretese l’abbattimento delle mura e del castello.
Saliamo sulla “Torre saracena” attraverso una scala piuttosto pericolosa. E’ la torre più alta, da cui si gode uno splendido panorama e si capisce una volta di più perché il luogo è comunemente indicato come Les Baux (balze, scarpate), al plurale. Ai piedi del castello, sono coltivate viti e ulivi doc. L’audioguida informa che la Francia sa di non poter competere con l’Italia e la Spagna nella produzione di olio, per cui si adopera per realizzare un prodotto di valore.
In questo luogo fu scoperto il minerale da cui si estrae l’alluminio, che venne appunto chiamato bauxite, e che è possibile notare osservando le strisce rossastre nella conca sottostante.
Poco lontano dal castello si aprono abitazioni troglodite scavate nel calcare, tanto facile da lavorare che gli abitanti l’avevano sfruttato appieno, intagliando nella roccia viva armadi a muro, mensole, maniglie per appendere a seccare mazzi di erbe di montagna, forse le stesse che Daudet descriveva come “sottili, grigie, dentellate, bruciate dai loro stessi profumi e dal sole”.
Lasciamo il villaggio quando ormai i negozi sono chiusi e la maggior parte dei turisti andata via. Camminando lungo le vie tranquille e silenziose, è più facile tornare indietro nel tempo.
Ci fermiamo ancora un istante sulla piana dove Richelieu aveva posizionato i cannoni e dove adesso troviamo un pittore intento a dipingere Les Baux al tramonto.
Decidiamo di proseguire per Saint Rémy de Provence, ma la stanchezza ci gioca uno scherzo, non brutto, perché è vero che ci porta dalla parte opposta ma ci fa cadere in braccio a Fontvieille, luogo dove si trova il mulino di Daudet e dove troviamo al primo colpo una camera in una casa d’epoca, piena di fiori, con una stanza e bagno fuori misura.
Sul terrazzo crescono bouganville, pomodori e peperoncino, e ci si può dondolare comodamente su un materasso di dimensioni normali, posato sul ripiano di un’altalena. E’ la casa più grande e più bella in cui siamo stati ospitati durante il viaggio.
Fatta la doccia, andiamo a zonzo per il paese e capitiamo all’Ami Provençal, un locale situato di fronte alla chiesa, dove ordiniamo due eccellenti torte catalane, il gelato e un caffè che finalmente somiglia al nostro, mentre in Linguadoca era a dir poco pessimo. Scambiamo due chiacchiere col proprietario e la moglie sulla situazione politica francese. Accanto a noi, siede un gruppo di amici con un cane. Quando capiscono che siamo italiani, ci dicono di aver preso il cane a Torino, in un canile. Dico in italiano al cane di venire da me e lui scodinzola e si avvicina, rimanendo seduto tutto il tempo accanto a noi.

20 e 21 luglio
Povenza e i PireneiTerrazzaOttima la colazione al fresco sul terrazzo, in compagnia di una gatta affettuosa e del proprietario che si trattiene a chiacchierare con noi. La Provenza è più calda della Linguadoca e il fresco dura poco. Andiamo a vedere il mulino di Daudet, chiuso perché il proprietario attuale è in causa con il Comune, che dopo aver avuto per trenta anni in comodato la struttura (nella quale è allestito un museo a pagamento), non lo vuole restituire, e il proprietario lo reclama sostenendo che il Comune ha guadagnato abbastanza. Queste informazioni le abbiamo avute dal loquace padrone dell’Ami Provençal, che ci ha anche detto che ormai Daudet non è più studiato nelle scuole. Sarà perché divenuto col tempo un conservatore, o per altri motivi, ma ad ogni modo ci sembrava giusto, visto che siamo finiti a Fontvielle e che ci siamo divertiti da piccoli con le avventure di Tartarino di Tarascona, omaggiare Daudet con una visita al suo mulino. La posizione è panoramica, e come scrive Daudet: “Un bel bosco di pini scende dinanzi a me scintillante di luce fino in fondo al pendio. All’orizzonte di stagliano le cime frastagliate e sottili delle Alpilles… Nessun rumore.. Solo, di tanto in tanto, il suono di un piffero, un chiurlo nelle lavande, i sonagli dei muli sulla strada…. Questo stupendo paesaggio provenzale vive di luce. Stando così le cose, come potete credere che io rimpianga la vostra caotica e buia Parigi? Sto veramente bene nel mio mulino”.
Eppure le Lettere furono scritte a Parigi, ed è con questa invocazione che Daudet chiude il suo libro: “Io, nascosto nell’erba, malato di nostalgia, ho l’impressione di vedere sfilare tutta la mia Parigi tra i pini. Ah! Parigi… Parigi!”
Torniamo a Fontvieille e passiamo dal mercato. Come sempre, girare per i banchi di un mercato provenzale non è meno bello che visitare un museo, senza contare i profumi. Comperiamo un po’ di confetture da un simpatico giovanotto avellinese che si chiama Limongiello, e delle saponette alla lavanda.
MulinoPartiamo per Aix en Provence percorrendo quei magnifici viali alberati che proteggono la strada dalla luce accecante, e facciamo un giro per la città. Abbiamo la sensazione che qualcuno ci segua e approfittiamo del riflesso di una vetrina per vedere di chi si tratta. E’ un uomo di una certa età, che si ferma a sua volta dietro di noi. Si accorge che ci siamo accorti e si allontana. Con la mano sul portafoglio e lo zaino sul davanti, continuiamo la nostra passeggiata fino alla cattedrale.
Il caldo è talmente intenso che non esitiamo a ripartire per Barcellonette, percorrendo la valle dell’Ubaye e lasciando quindi la pianura per le montagne.
Una parte degli abitanti di Barcellonette emigrarono in Messico tra Ottocento e Novecento, e quelli che fecero fortuna tornarono in patria e costruirono magnifiche ville in vari stili, tra Povenza e Pireneicui il barocco. Ancora oggi questo legame con il Messico è vivo e sentito. Non trovando una sistemazione per la sera, ci accontentiamo di un breve giro per vedere da vicino queste “ville messicane” e infine ci spostiamo a Jausiers, per l’ultima notte di pernottamento.
Il rientro in Italia avviene attraverso il Colle della Maddalena, accompagnati dalla canzone di un trovatore, Aimeric de Peguilhan, che secondo alcuni sfuggì alla crociata riparando in Lombardia e tornò ad Albi solo per ricongiungersi con la sua amante.

“Chi ama fare la guerra, secondo me non agisce con saggezza, perché della guerra si vedono subito i danni e tardi i vantaggi: la guerra trasforma il male in peggio. Io trovo nella guerra, che mai vorrei, abbondanza di male e scarsità di bene, mentre l’amore puro, anche se mi fa soffrire, ha tanta felicità in se stesso, che mi riporta facilmente alla gioia”

Come sempre, un grazie sincero a chi ha avuto la pazienza di leggerci fino in fondo!

Testo di Nadia Silistrini, foto di Fabrizio Tagliabue

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